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Venezia, la grande kermesse dell'arte mondiale apre oggi
ai giornalisti e dal 10 al pubblico. Chiuderà il 4 novembre


Ultracorpi robotici e virus
a guardia della Biennale

Il tema è la "Platea dell'umanità" e finisce per avvolgere
tutto. Una mostra gigantesca. Difficile trovare un filo


di ADRIANA POLVERONI
 

Grande, grandissima questa prima Biennale del terzo millennio. Quasi invadente. Ancora nuovi spazi espositivi, come se l'arte, la voglia di far vedere un altro punto di vista sul mondo, si insinuasse dappertutto. E questo del resto era il titolo della prima Biennale, quella di due anni fa, curata allora come oggi dal critico svizzero Harald Szeemann. Oggi il "dappertutto" si è trasformato in "Platea dell'umanità": non solo nuovi spazi, ma anche danza, musica, spettacoli, un calendario fittissimo di mostre a latere e soprattutto Paesi che mai hanno partecipato alla grande kermesse veneziana. Il 10 giugno (data d'apertura al pubblico, chiusura: 4 novembre) sarà quindi la prima volta della Jamaica e della Nuova Zelanda, che a Venezia porta la cultura maori, dell'Ucraina e della Bosnia Erzegovina. Una giostra inesauribile di proposte, "sorprese", come le chiama Szeemann, che tra le altre cose dovrebbero chiudere i conti con il Novecento. Tra installazioni, nuovi linguaggi visivi, come video e fotografia, performance e film, le centinaia di opere presentate dovrebbero mettere in cantiere definitivamente la secolare disputa tra astrattismo e figurativismo. Inventando un nuovo linguaggio. Sì, ma quale?

La sensazione è che tanta più umanità è presente, tanto più mondo è messo in mostra fino ai suoi angoli più estremi: dalle praterie dei nativi d'America alle savane e megalopoli africane, tanta più presenza umana è insomma evocata, e tanto invece la figura umana appare priva di identità. A popolare la più grande Biennale della storia sono ultracorpi robotici, come quello messa a guardia delle Corderie (uno degli ultimi spazi strappati al vecchio Arsenale) dall'artista inglese Ron Muech o come quelli ipersessualizzati del suo compatriota Chris Cunningham. Corpi virtuali che viaggiano nella grande rete, insieme a virus micidiali (come nel padiglione della Slovenia), bambini-coniglietti che si divertono ad uccidere i modelli di una sfilata (Georgina Starr), bambole sofisticate e algide come le creature in carne ed ossa di Vanessa Beecroft, nanerottoli del giapponese Tatsuno Orimoto e così via mescolando alterazioni e travestimenti. E neanche gli oggetti, fino ad oggi lontani da crisi d'identità, se la passano troppo bene. Tra i pochi italiani presenti, e superstiti dopo le lunghe polemiche sull'annullamento del padiglione Italia voluto da Szeemann, compaiono gli oggetti sghembi e come privi di ossatura del giovane Loris Cecchini, ormai più che una promessa dell'ultima generazione, e le "terre desolate", le periferie squassate e un po' struggenti di Botto & Bruno.

Un'umanità che è anche un po' un ring, perché è qui che si consumano le battaglie tra i sessi (sono tante le presenze femminili importanti e agguerrite), le guerre di religione e le critiche ai suoi massimi esponenti, come quella espressa dalla "Nona ora" di Maurizio Cattelan (il Papa quasi schiacciato da una meteorite), artista che comunque è presente per la Biennale anche fuori Venezia, con l'installazione "Hollywood" dispiegata su una collina di rifiuti a Palermo

Eppure, tra tanto spaesamento un filo conduttore dovrebbe esserci. E' Harald Szeemann a suggerirlo per spiegare il suo lavoro e quello degli artisti: ciascuno "fa appello a ciò che di eterno c'è nell'uomo, sulla base del radicamento locale, l'unico a poter dar peso, a legittimare questo appello", ha scritto il curatore. "Glocalismo", quindi è forse il leitmotiv di questa Biennale come di molte altre espressioni critiche e creative di oggi. Parola nuova nata dalla contrazione di globale e locale. Partorita insomma come una creatura ibrida dagli umori e dalle domande di questa epoca.

(6 giugno 2001)
 


Apre la Biennale
del "Glocalismo"


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